Le notti della peste

Romanzo di Orhan Pamuk

Un romanzo complesso e bellissimo.

Nel 1901, l’epidemia dilaga nella piccola isola di Mingher, provincia dell’impero ottomano, facendo un numero di morti molto elevato per una popolazione di poche migliaia di persone. Si contrappongono la scienza medica, che con i poveri mezzi di allora cerca di imporre la quarantena, e almeno due frazioni della popolazione contrarie alle chiusure: i fanatici religiosi, che alla scienza non credono, e i commercianti, che si sentono danneggiati. Dopo un tira e molla durato alcuni mesi, e molte centinaia di morti, alla fine il medico dottor Nuri riceve il placet dell’intera comunità, e l’epidemia cede il passo a una pacificazione con vari lati oscuri.

Per una malattia terribile, che uccide in pochi giorni, arrivata dall’oriente con la prospettiva che si possa estendere all’impero e all’Europa, l’unica arma disponibile era l’isolamento dei malati e l’incenerimento delle loro masserizie, non senza una fase iniziale in cui i responsabili politici locali provano a negare l’evidenza dell’epidemia. La successiva applicazione delle misure restrittive viene interpretata in modi diversi da quanti si succedono al potere, dando infine ragione a una modalità tanto rigorosa, quanto umana. Non si può evitare di pensare a quanto appena accaduto e ancora sta accadendo: la scienza e gli statisti da una parte; fanatici, politici e affaristi dalla parte opposta, noi in mezzo, comunque schierati, ma comunque impossibilitati a esprimerci.

Nell’ambito della decadenza dell’impero ottomano, che sta ormai perdendo i vasti territori che ne facevano parte, spuntano i nazionalismi delle singole componenti, pur con accezioni diverse del termine nazionalismo rispetto a quelle che oggi gli attribuiamo. E ciascuno di questi nazionalismi, quasi inevitabilmente, scivola verso la dittatura, verso il predominio dell’uomo forte. Molto spesso, inoltre, quest’uomo forte non è quello che emerge dal popolo che si libera del giogo ottomano, ma un uomo che viene da fuori, imposto dalle circostanze o, più spesso, dalle grandi potenze coloniali, o con il loro consenso: di questo si è nutrita la storia della Turchia moderna, e l’autore, fiero oppositore dell’AKP, non manca di parlarne, tra le pieghe del romanzo.

Dietro le quinte, si intravede un discorso dell’autore sulle migrazioni: la gente di Mingher non è autoctona, ma il risultato di una migrazione dall’Asia centrale avvenuta migliaia di anni prima. Guai, però, a dirlo ai mingheriani, che, fieri della propria isola, rifiuterebbero di essere discendenti di una popolazione nata altrove. Ciò non toglie che vi siano contrapposizioni anche violente, anche sanguinose, tra mingheriani di origine o etnia ottomana, greca e romea, soprattutto per la diversa stratificazione sociale, che vede greci e romei al vertice e i musulmani ai piedi della piramide, ma anche per il possesso delle leve di comando.

Il romanzo ha anche un risvolto giallo: chi ha voluto la morte del dottor Bonkowski? Chi altro doveva morire con lui? E perché? L’enigma si scioglierà solo alla fine, in via deduttiva, e senza conseguenze sulla storia narrata.

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