Le tappe della disfatta

Memorie di guerra 1915-18

Ho acquistato questo libro (Mursia, 360 pp, 18 €) al bar del Forte Belvedere, ma lo avevo già visto in libreria a Folgaria.

Fritz Weber era un ufficiale dell’artiglieria austro-ungarica di 20 anni, quando si trovò in guerra sugli altipiani del Trentino. La sua storia inizia a Lavarone, ma poi ci sono anche l’Isonzo, il Piave e poi il ritorno, da sconfitti. Sconfitti da cosa? Più dal crollo dell’Impero, che dalle armi italiane. Più dagli errori propri, che dalla superiorità altrui.

Fritz Weber scrive le sue memorie di guerra nel 1933, a distanza di 15 anni dai fatti, ma nel suo scritto ci sono ancora e soprattutto le sensazioni, le impressioni e le premonizioni di quei giorni. In particolare, si avverte la sua certezza della vittoria nella preparazione della battaglia di Caporetto, l’euforia nell’inseguimento delle truppe italiane, sconfitte ma non sbandate, fino al Piave, la delusione per essersi lì fermati, quando si poteva, a suo dire, volare sulle ali dell’entusiasmo per tutta la pianura del Po e andare ad attaccare la Francia attraverso le Alpi occidentali. Per questa scelta, di arrestare la possibile, ulteriore avanzata, attribuisce la colpa ai parrucconi di Vienna, così lontani dal teatro di guerra, e agli stessi attribuisce la scelta dell’offensiva del giugno 1918, quando era chiaro che sarebbe fallita per la debolezza degli approvvigionamenti.

La tragedia finale incomincia nelle lagune alla foce del Piave e del Livenza, dove incombe la malaria che si prende soldati ormai mancanti di tutto, prosegue con le contrapposizioni tra le diverse etnie dell’Impero, che lascia soli gli austriaci, mentre gli altri trovano nell’indipendenza nazionale nuovi obiettivi, e termina con il rientro a Vienna, dove ad accoglierli c’è solo una grande freddezza.

Insomma, non è un diario di guerra, ma un riesame condotto dopo molti anni, come uno storico che ha realmente partecipato agli avvenimenti descritti, e questo ne fa un documento dalla doppia valenza, storica e umana, di potente impatto emotivo.

Alcuni punti salienti:

“Il battaglione prescelto doveva rimanere dove si trovava, facendosi decimare e distruggere senza risparmio per permettere che due o tre altri reparti potessero tenersi al riparo e freschi in attesa del momento decisivo.” Questo permetteva agli Asburgici di tenere con efficacia le loro posizioni, pur in presenza di una marcata superiorità numerica degli Italiani. È la tattica di Boroevic, che rimaneva defilato per non soccombere alle emozioni, che gli avrebbero impedito di continuare ad attuare questa forma di guerra.

“La cima viene da noi perduta e ripresa. … Secondo la carta topografica, noi spariamo contro le nostre stesse posizioni, consci purtroppo di fare a pezzi centinaia dei nostri che vi giacciono feriti.” È la guerra di posizione sulle pietraie del Carso, che certamente ha visto ripetersi queste tragiche condizioni da una parte e dall’altra.

“Il loro mondo assomiglia, dunque, tanto al nostro che essi pure vedono nella fine di un loro eguale rispecchiata la loro stessa morte.” Sono i cavalli, indifferenti alla morte degli umani, ma sensibili alla sofferenza di un loro simile.

“Siamo in un paese nemico, benché questa terra, qualora noi non l’avessimo difesa, sarebbe ora ridotta a un deserto.” Il deserto a cui allude è quello che avrebbe avuto luogo qualora la guerra avesse investito la Slovenia, ma forse pensa anche a quel che il fascismo italiano ha poi fatto di queste terre di confine.

“Stringo per l’ultima volta le mani dei miei compagni, …mi fissano in silenzio, pallidi e stanchi, simbolo vivente di un popolo che non ha meritato il suo duro destino.” È la chiusa del libro, e già si immagina che il destino dell’Austria ha da peggiorare ancora.

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