Fiducia

Esiste una crisi di fiducia: come superarla?

“La fiducia è un sentimento ottimistico che può essere rivolto a persone o eventi. Di norma la fiducia è associata alla speranza, ma in realtà chi ripone la propria fiducia in qualcuno o qualcosa non spera che questo rispetti le sue aspettative, ne è certo” (da Wikipedia.it).

La crisi della fiducia degli Italiani nelle loro istituzioni ha molti aspetti, ma un aspetto che ha effetti di trascinamento su molti altri è la (non) fiducia nella qualità delle opere pubbliche, in particolare quelle che hanno un forte impatto sul territorio, anche solo a livello psicologico. Riguadagnare la fiducia degli Italiani è necessario per poter lavorare alla modernizzazione del paese, ma questa operazione di recupero si presenta lunga e difficile. Si tratta infatti di convincere gli Italiani non solo che è possibile lavorare bene per il bene comune, ma che si è animati da una forte volontà di farlo.

Occorre evitare di confondere la qualità del progetto di un’opera pubblica con la qualità della sua realizzazione, e ricordare che per avere opere ben fatte occorrono entrambe queste qualità. Non si tratta solo di fare dei progetti validi e aggiornati al meglio della tecnologia, ma anche di curarne la realizzazione da parte di costruttori e appaltatori che, dovendo evidentemente curare i loro interessi, cercheranno sempre di risparmiare ovunque ciò sia possibile. La normale dialettica fra chi compra e chi vende funziona egregiamente a due condizioni, competenza e onestà, ma richiede anche una ulteriore condizione che il committente deve curare e mettere in atto: destinare risorse idonee, in quantità e qualità, al controllo di quanto viene costruito.

Nel caso delle opere pubbliche, questo è uno dei punti più dolenti. Quante volte ci siamo detti, vedendo una pavimentazione stradale: ma chi ha accettato un’opera realizzata così male? Ebbene, potrebbe non essere colpa del collaudatore o comunque della persona designata all’accettazione: se nessuno ha seguito le opere mentre queste venivano costruite, ben poco si può fare a lavoro terminato, e i difetti, anche quelli non rilevabili all’atto del collaudo, non tardano a evidenziarsi.

Questo è un punto molto importante, anche dal punto di vista del consenso, perché le logiche a cui rispondono i rifiuti delle popolazioni ad ospitare sul proprio territorio le nuove installazioni si basano sulla sfiducia nella qualità delle realizzazioni e sulla inaccessibilità ai controlli. Poi, su questa sfiducia, si appoggiano motivazioni ideologiche e di altro genere, che magari sono quelle che emergono di più, ma ciò accadrebbe assai più difficilmente, e con minore appoggio popolare, se non esistesse una ricca casistica di opere che non hanno funzionato come avrebbero dovuto. Purtroppo, anche al di là dei casi più gravi (il Vajont rimane il più tragico), si potrebbe fare un lungo elenco di aspettative tradite, dovute a quanti (imprese, stato, enti locali) hanno anteposto altre priorità ai comportamenti corretti e virtuosi, ed oggi, l’unico fulcro concreto su cui possa appoggiarsi una azione di recupero della fiducia è quello di lavorare meglio, con maggiore trasparenza, e aprire ai controlli.

L’esperienza dice che l’introduzione degli aspetti ambientali in un progetto va fatta all’inizio, e che è talvolta assai difficile far diventare ecocompatibile un progetto nato diversamente. Se è vero, come dicono, che il fattore amianto non è stato considerato nel progetto della Lione-Torino, ciò è grave, ma può essere recuperato: in tutta Europa si fanno gallerie in presenza di rocce contenenti amianto; basta saperlo prima, e prendere i necessari provvedimenti contrattuali e organizzativi, quali quello di dotarsi delle attrezzature per l’analisi delle rocce, degli specialisti in grado di eseguire le analisi e quello di fissare criteri giustamente rigorosi per la messa a discarica dei materiali di scavo. Se così non è stato per la Lione-Torino, fanno bene i cittadini a pretendere maggiori cautele, per riportare il progetto nell’ambito delle opere ben fatte. Naturalmente, occorre anche verificare quotidianamente che i comportamenti reali siano rispettosi di quanto stabilito in sede progettuale e organizzativa: occorre, cioè, che la gestione sia la logica conseguenza di quanto già deciso, e che non segua strade proprie e diverse.

Per ottenere questo, occorrono controlli, che sono non solo quelli degli enti preposti, ma anche quelli fatti dagli specialisti del committente. Ricordo bene quello che accadeva a me e ai miei ragazzi in una centrale dell’ENEL, a Porto Corsini, nel contraddittorio con le ditte che vincevano gli appalti di installazione o manutenzione: ci accusavano di avere atteggiamenti persecutori nei loro confronti, mentre invece non facevamo altro che applicare quanto stabilito dal contratto. Evidentemente, con altri committenti, erano abituati a farla da padroni senza che nessuno obiettasse alcunché. Questo, invece, è il primo e uno dei più importati dei livelli di controllo, quello fatto dal committente stesso, chiedendo e ottenendo il rispetto integrale di quanto stabilito dai contratti, dai capitolati, dalle specifiche e da tutti gli altri documenti tecnici e organizzativi, senza deroghe e modifiche, se non quelle motivate da cause di forza maggiore o dalla volontà di elevare il livello qualitativo del progetto.

Per l’efficacia dei controlli esterni, non è facile, di fronte alle mutazioni tecnologiche, mantenere un adeguato livello negli operatori degli enti di controllo (le Asl, l’Ispesl, il Genio Civile, i Vigili del Fuoco, le Capitanerie di Porto, la Guardia di Finanza ecc.), anche perché questi posti di lavoro, per i giovani diplomati e laureati, non sono più fra quelli maggiormente appetibili. Chissà se questa crisi potrà modificare questa tendenza: sarebbe il primo aspetto positivo della congiuntura in atto, a fronte di tanti aspetti tragici. Una volta, ai concorsi degli enti si presentavano buoni ingegneri, e venivano assunti i migliori tra essi. Questi ingegneri maturavano, e col tempo diventavano vere autorità.

Oggi, quelle stesse occupazioni sono diventate di transito, giusto per fare esperienza e poi lanciarsi sul mercato delle aziende private, le quali invece, con l’arma del denaro, assumono professionisti già formati. Se si vuole invertire questa tendenza, non rimane che usare oculatamente la stessa arma che usano i privati: garantire le carriere ai meritevoli e rispondere alle offerte delle aziende private con delle contro offerte, con l’obiettivo di un necessario ritorno all’antico, quando gli ingegneri delle Ferrovie e del Genio Civile erano costantemente più bravi di quelli che si trovano dall’altra parte del tavolo, nel lavoro di controllo e sorveglianza, e non capitava mai che gli specialisti degli enti fossero  in posizione debole rispetto a quelli di fornitori e appaltatori.

Poi, una volta che le opere pubbliche sono state costruite, occorre preoccuparsi della loro conduzione, e sull’esercizio degli impianti gioca la riduzione del personale, e anche qui occorrono risorse idonee, in quantità e qualità. Negli anni appena trascorsi, ha dettato legge una generazione di carrieristi che sono andati avanti come tagliatori di teste, e che si sono serviti in maniera spregiudicata del prepensionamento dei lavoratori. Questo ha provocato una fuoriuscita di lavoratori qualificati dalla conduzione degli impianti, e questa fuoriuscita è stata governata solo dal numero dei così detti esuberi, senza tenere debitamente conto della eventualità di trovarsi con il personale di conduzione qualitativamente impoverito. Purtroppo, su questo aspetto, l’intervento è lungo e difficile, perché non basta prelevare dalle università e dagli istituti tecnici i laureati migliori ed i migliori periti: occorre anche dare loro tutto il tempo necessario per maturare le competenze che occorrono per essere in grado di prendere le decisioni giuste nei tempi rapidissimi che la conduzione d’impianto impone.

Si capisce tuttavia che scuola e università sono il punto di partenza ineludibile di qualsiasi attività che richieda lavoro qualificato, ma, per favore, non lasciamoci fuorviare da slogan: non ce lo possiamo permettere. La scuola che meglio risponde alle esigenze non è né la scuola pubblica, né quella privata, ma semplicemente una scuola di qualità, che faccia bene il suo lavoro (quello di insegnare), senza riguardo alla sua struttura societaria e organizzativa. Tutto quello che dobbiamo garantire è la qualità della scuola: una scuola in grado di produrre e di utilizzare innovazione con gli stessi ritmi vertiginosi con cui lo fa la società, in grado di preparare i nostri giovani a lavorare nei settori più avanzati della cultura, della scienza e della tecnica. Occorre quindi che si metta la scuola pubblica in grado di produrre qualità (le risorse culturali e umane ci sono già, basta saperle liberare, evitando di falcidiarle) e che chiediamo alle altre scuole di adeguarsi. Dopo di ciò, le scuole pubbliche e private che dimostreranno di saper fare quanto loro richiesto avranno i contributi dello stato, le altre scompariranno e le rimpiangeranno solo i coccodrilli.

Sono queste le cose che servono per le opere pubbliche: controllo accurato e competente del progetto e della sua realizzazione; conduzione competente e attenta; accesso per controlli esterni da parte di enti qualificati; per investire bene i soldi dei cittadini e riguadagnarsi la loro fiducia, e non soltanto per le grandi opere (ferrovie, strade, porti, centrali elettriche, inceneritori, rigassificatori ecc.), ma anche per opere molto più semplici: opere di assetto urbano, fognature, acquedotti e molte altre che costituiscono il lavoro ordinario di comuni e province. Le risorse spese per i controlli non costituiscono spreco di denaro pubblico; semmai, è vero il contrario: il vero spreco è accettare come ben fatte delle opere che non lo sono, spreco di denaro pubblico e spreco di pubblica fiducia.

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