Memorie del sottosuolo

Romanzo di Fëdor Michailovic Dostoevskij

Ho rimediato a una grave lacuna e ho letto questo amarissimo, straordinario romanzo di Dostoevskij.

“La vostra viltà la prendevate per saggezza, e con ciò vi consolavate, ingannandovi da voi”. Basterebbe questa frase per rendersi conto dell’estrema attualità dello scrittore russo. Con quella frase si rivolge a tutti quelli che vorrebbero, ma non osano; che hanno alti pensieri e azioni inconcludenti. Se questo libro fosse stato scritto ieri, lo potremmo giudicare inquietante, ma essendo stato scritto nel 1864, dobbiamo definirlo profetico.

Il protagonista del romanzo, che parla di se stesso al lettore, è un cinico che odia il mondo che, all’inizio, sembra voler giustificare le debolezze proprie per giustificare quelle dell’autore, ma finisce per affermare che la volontà umana è libera persino di perseguire il proprio danno. Ci spinge perciò a pensare che la nostra libertà attuale è un’illusione che, in virtù della nostra viltà, non ci consente di liberare tutto il nostro potenziale, né quello distruttivo, né quello positivo, costringendo ciascuno di noi nel suo proprio sottosuolo. C’è una dittatura della mediocrità soddisfatta di se stessa, in cui ciascuno sfoga le proprie repressioni su chi sta peggio di lui e più di lui vive affondato nel sottosuolo.

Alcuni punti rilevanti (tutto è rilevante in questo piccolo capolavoro, ma alcuni punti lo sono di più):

  • “Infatti io, per esempio, non mi meraviglierei per nulla se a un tratto, in mezzo all’universale saggezza futura sorgesse un qualche gentleman dall’aspetto ignobile o, per meglio dire, retrogrado e beffardo, si mettesse le mani sui fianchi e dicesse a tutti noi: ebbene, signori? Non dobbiamo buttar giù tutta questa saggezza d’un colpo, con una pedata, mandandola in polvere, col solo scopo che tutti questi logaritmi se ne vadano al diavolo, e che noi si possa di nuovo vivere secondo la nostra sciocca volontà?”

È il ritratto di un qualsiasi Benito, ma fa anche pensare alle attuali difficoltà con il rispetto per le donne e al rifiuto di novità ovvie, come i vaccini e molte altre.

  • “Ogni uomo per bene del nostro tempo è e deve essere un vigliacco e uno schiavo. È il suo stato normale. Ne sono profondamente convinto. È fatto così e congegnato per quello. E non solo nel nostro tempo, per qualche casuale circostanza, ma in generale in tutti i tempi l’uomo per bene deve essere un vigliacco e uno schiavo… Anche se a qualcuno di loro accade di fare il bravo di fronte a qualcosa, che non si consoli e non se ne infatui: tanto, dinanzi ad altro avrà la tremarella.”

È cambiato il modo di essere schiavi, dal XIX secolo a oggi: non ci sono più i servi della gleba, almeno qui da noi, e non c’è più la tirannide assoluta nel macro e nel microcosmo quotidiano, ma in compenso viviamo la precarietà e siamo chiamati a essere buoni consumatori, perché se cessiamo di esserlo, tutto il castello crolla. Sembra un vantaggio, ma siamo sicuri che lo sia?

  • “In primo luogo, amarla non potevo più, perché, lo ripeto, amare per me ha sempre voluto dire tiranneggiare e avere una superiorità morale. In tutta la mia vita non ho mai potuto immaginarmi un amore diverso, e sono giunto al punto che ora penso a volte che l’amore consista appunto nel diritto volontariamente concesso dall’oggetto amato di tiranneggiarlo. Anche nei miei sogni del sottosuolo non mi sono mai figurato l’amore se non come una lotta…”

Tutto ciò sembra spaventoso, ma in molti casi, ahimè, rappresenta la realtà quotidiana di molti “amori”. E anche dove non c’è violenza fisica, esistono spesso condizioni di lotta subdola, in cui la convivenza e il matrimonio sono concepiti come una lotta in cui c’è chi prevale e chi si arrende.

Fëdor Michailovic Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, 130 pp, 9 €. Nota introduttiva di Leone Ginzburg.

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