Helgoland

Saggio di Carlo Rovelli

Helgoland è un’isola del mare del Nord, territorio tedesco da 130 anni, essendo già stata prima danese e poi inglese. Carlo Rovelli vi fa riferimento in quanto Werner Heisenberg soggiornava in quei luoghi sperduti per curarsi e là ebbe intuizioni fondamentali sulla teoria dei quanti.

Questo libro (Adelphi, 200 pp più 20 di note che non ho letto, 15 €) viene presentato come un saggio di fisica a livello divulgativo, ma non lo è. Direi piuttosto che tratta di filosofia della scienza ed espone una precisa interpretazione relazionale della teoria dei quanti. E ora come faccio a scriverne qualcosa? Come faccio a pensare di essere all’altezza di quest’impresa senza essere banale? Ci provo, ma non so se ci riuscirò, anzi, sono sicuro che non ci riuscirò e farò, ben che vada, la figura di un Giacobbo.

La filosofia della scienza prospettata da Rovelli si rifà a Ernst Mach, e cerca di misurare l’importanza del filosofo tedesco sullo studio della fisica. Cita l’influenza che ha avuto, oltre che sullo stesso Heisenberg, anche su Einstein, Born, Pauli, Schrödinger e su altri importanti studiosi.

Su quelle basi, per Rovelli il pensiero scientifico non è fatto di certezze acquisite: è invece in movimento continuo, e il punto di forza sta proprio nella capacità della scienza di mettersi in discussione per sovvertire l’ordine precedente e disegnarne uno nuovo, più rispondente a nuove acquisizioni sia teoriche, che sperimentali. L’affidabilità della scienza è basata sulla messa in dubbio costante e sistematica del sapere, che permette di liberarsi di errori e pregiudizi provenienti da una mentalità metafisica radicatasi nei millenni. Per Rovelli, talune affermazioni di sedicenti materialisti sono esse stesse metafisica, perché antepongono il primato di un’idea a quella di un mondo in cui si apprezzino le novità che apprendiamo anche se fanno a pugni con le idee che fin lì ce ne eravamo fatti. Contrappone Lenin, il metafisico, a Bogdanov, il vero materialista, che a Rovelli è caro al pari di Heisenberg.

Il libro parla dei concetti di informazione, nel senso del contenuto di informazione che ogni entità possiede, ma anche di rilevanza dell’informazione, che può esserci oppure no, ma dipende dal contesto e dal punto di vista. Il quale punto di vista non può mai essere estraneo al contesto medesimo: non esiste un punto di vista esterno dal quale valutare e misurare oggettivamente un fenomeno. Il fatto stesso di osservare e misurare incide sul fenomeno e lo modifica. Stessa cosa si può dire del concetto di significato, come estensione al mondo mentale del concetto di informazione, per cui anche il significato cessa di essere estraneo al mondo fisico. Si parla a questo punto di sensazione soggettiva, che rappresenta la sola relazione tra il mondo fisico e l’attività mentale, e che permette di calare l’io senziente nel mondo naturale, ma senza con questo creare una nuova metafisica che ci rimetta al centro del mondo. “L’introspezione è il peggior strumento d’indagine, se ci interessa la natura della mente: è andare a cercare i propri pregiudizi più radicati e sguazzarci dentro”.

La scoperta di come funziona la visione (attenzione: la visione, non la vista, cioè come avviene questo fenomeno oltre gli occhi, nel cervello) mediante segnali di conferma o contraddizione, oltre a permetterci di capire la nostra percezione delle arti figurative, ci rende conto che tutto il nostro sapere è fatto così, mediante conferma o smentita di quanto precedentemente noto e metabolizzato. E quando aggiorniamo la nostra immagine del mondo per averne una più consona, scopriamo che tutto funziona come la nostra visione e che questo costituisce la miglior conferma della fisica moderna, del suo modo di procedere, quella che va oltre ogni visione consolidata e rovescia la freccia: non più per cercare una legge dietro quanto osservato, ma un’osservazione che confermi quel che la mente concepisce.

E qui mi sorge il dubbio: questa estensione del rovesciamento della freccia tra osservazione e legge fisica a tutta la fisica moderna e non alla sola teoria dei quanti, come forse è nell’intenzione di Rovelli mi induce a pensare che il problema sia io, che non riesco a entrare in una risonanza più profonda con l’argomento e che sto tentando di rifugiarmi in qualcosa che già conosco, o che credo di avere già intuito e che con questo stia ancora sguazzando nei miei pregiudizi.

La conclusione di Rovelli è che la realtà è evanescente, e che tutto è relazione. Ogni cosa è solo ciò che si rispecchia in un’altra. C’era uno scrittore russo citato da Paolo Nori che diceva: Se penso che la birra è fatta di atomi, mi passa la voglia di bere. Aveva torto. La birra non è fatta di atomi; io non son fatto di atomi; la sedia sotto di me non è fatta di atomi; e neppure il nostro pianeta è fatto di atomi. Non ci sono i miei atomi, o quelli della sedia, o quelli della birra, perché c’è un continuo scambio di atomi di un corpo, o di una qualsiasi entità, con l’ambiente circostante, e se noi vediamo una sedia, un tavolo, un libro o l’acqua del mare è perché gli atomi che temporaneamente li compongono vanno a disporsi secondo precisi schemi, precise relazioni: siamo fatti di relazioni; il mondo è fatto di relazioni; lo spazio è fatto di relazioni, il tempo è fatto di relazioni. “Siamo un ricamo delicato e complesso della rete di relazioni di cui, al meglio che comprendiamo oggi, è costituita la realtà”.

A questo punto, si può solo tornare da capo, e chiedersi (chiedermi): ma ho capito? E cosa ho capito? Rovelli voleva dire queste cose, o ne intendeva altre più profonde che non sono arrivato a comprendere? Temo che non lo saprò mai, perché, ammesso (e non concesso) che io abbia capito bene fin qui, non credo proprio che saprò andare oltre questa paginetta, una delle più faticose che mi sia mai capitato di scrivere.

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