La guerra tra noi

Saggio di Cecilia Strada, Rizzoli, 180 pp, 18 €.

Ho aspettato qualche giorno, dalla fine della lettura, prima di scrivere queste righe di commento al libro di Cecilia Strada, perché è un libro duro e difficile, e richiede un po’ di ripensamento per essere metabolizzato. Le informazioni che fornisce, anche quando sono sorprendenti, sono tutte verificabili, e quindi tutte credibili, ma nonostante questo, rimangono alcune perplessità: spero di riuscire a esser chiaro, perché non è facile.

Ci sono due principali idee, pienamente condivisibili, che stanno alla base di tutto; una sta nel sottotitolo, “Sono andata lontano per capire quello che succede qui”, e l’altra è il riferimento costante al dìvide et ìmpera.

La prima mi fa ripensare a come l’Italia appaia diversa, se vista da fuori; e non è nostalgia, è la visione di cosa si pensa dell’Italia negli altri paesi, e come siano visti gli italiani, ma l’autrice si riferisce piuttosto alla possibilità di quali siano i veri problemi dell’Africa e dei paesi in guerra e capire quali sono le conseguenze per l’Europa e per l’Italia in particolare. L’Italia non è un’isola; l’Europa non è un’isola; il mondo sì, il mondo è un’isola con 7 miliardi di isolani. Non tutto il pensiero di Cecilia è espresso in maniera semplice, spesso è necessario uno sforzo per capire dove vuole arrivare, ma quel che dice è giusto.

La seconda, il dìvide et ìmpera, ricorre spesso a significare come i nemici della democrazia e della pace non si vergognino minimamente a mettere gli uni contro gli altri tutti quelli che si frappongono tra loro e i loro obiettivi, facendoci credere che i nostri nemici sono altri e fomentando guerre fra poveri. Il guaio è che molto spesso ci riescono pienamente, ed è difficile far capire che sono proprio loro e non altri quelli che ti affossano.

Poi, c’è anche la posizione sulla TAV e sui no-TAV, che stento a condividere. In questo gioca molto il fatto che tanti anni fa avevamo in odio le autostrade, simbolo dell’asservimento dello Stato nei confronti dei costruttori di autoveicoli, e non ci saremmo mai sognati di prendercela con una ferrovia, simbolo del trasporto pubblico. Invece, Cecilia parla dell’inutilità dell’opera, del diritto dei valligiani a opporsi, della liceità di frapporre ostacoli, del ruolo dei centri sociali, che insegnano ai valligiani a difendersi. Tutto questo mi lascia perplesso, ma non è questa la sede per approfondire: credo invece che scriverò all’autrice, come ho già fatto in passato.

Poi, ci sono alcuni capitoli di significato più circoscritto, ma non per questo secondari. Vediamoli:

L’uso delle armi chimiche: le testimonianze raccolte fanno pensare a un uso molto più generalizzato di quel che dice la stampa, anche se alcuni aspetti citati nel libro fanno pensare più agli effetti delle radiazioni ionizzanti, che a quelli delle armi chimiche. In particolare, cita Falluja, in Iraq, dove gli americani avrebbero usato prodotti teratogeni. Quindi, non solo Saddam Hussein, Bashar al-Assad e Recep Tayyip Erdoğan, ma anche tutti gli altri. D’altra parte, non dimentichiamo che gli Stati Uniti hanno firmato la convenzione contro le armi chimiche solo dopo la fine della guerra del Vietnam, dove ne avevano fatto un uso massiccio di cui il Vietnam risente ancora.

“Quando sei a casa, accendi la televisione e trovi quei film in cui restare feriti sembra una cosa eroica, quasi romantica. È la retorica della guerra. Quando guardi i feriti veri, capisci che non è niente del genere”. E penso a mio nonno, Gino Innocenti, ferito sull’Isonzo nel ’15, e tornato a casa un anno dopo, un anno passato in ospedale a Milano, con il terrore di un’amputazione che poi, per fortuna, non ci fu.

Il destino delle armi: dove finiscono le armi inviate per armare gli “alleati”? Nessuno lo sa per certo, ma il caso di quelle fornite dagli americani a Osama Bin Laden per combattere i russi in Afghanistan, e poi rivolte contro gli americani stessi, è tutt’altro che isolato: un’arma dura cinquant’anni e più (si trovano ancora le munizioni per le armi della 2WW) e chi la fornisce non può ignorare la possibilità di trovarsela un giorno puntata contro.

Le servitù della Sardegna: in Sardegna ci sono quasi 14000 ettari sottoposti a servitù militari, dove vengono provate armi di ogni genere, dalle pistole ai cannoni. Non sembra molto, ma pesa sulle popolazioni locali non solo per il turismo, ma anche per l’agricoltura e l’allevamento, oltre che per i possibili effetti sulla salute e sulla sicurezza.

Le migranti col pancione: “vengono qui per far nascere i loro figli in Italia”, dice un’astuta montatura politica. La realtà è molto diversa: qualcuna è stata violentata durante il viaggio verso la costa libica, qualcun’altra è partita dopo essere rimasta incinta, sperando che la gravidanza la proteggesse dagli stupri. Che dire a chi crede che “vengono qui per far nascere i loro figli in Italia”? Attento! Ricordati del dìvide et ìmpera.

Barack Obama: dice Cecilia che Obama ha firmato centinaia di ordini di eliminazioni mirate, vere e proprie esecuzioni senza processo né diritto alla difesa, ed eseguite servendosi di droni manovrati da migliaia di chilometri di distanza, come cecchini 2.0. Non so, nessuno sa, se i numeri sono giusti, ma certamente queste forme di barbarie esistono ancora e sono praticate anche dalle democrazie. A proposito: sapete perché i cecchini si chiamino così? Siamo nella Grande Guerra e i cecchini erano i tiratori scelti di Cecco, cioè dell’imperatore Francesco Giuseppe.

Un libro difficile e amaro, che merita una attenta lettura e una profonda meditazione, non per approvarlo passivamente, ma per ampliare la visuale sui fatti del mondo e su quelli di casa nostra, come è sempre per i buoni libri. E anche perché nostra casa è il mondo intero.

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